Qualcuno ne ha già contate 11, forse 12. Il Pd di Matteo Renzi, che molti dei suoi avversari interni hanno sempre additato come l'uomo solo al comando, è attraversato dalle correnti.
Un antico vizio della politica solitamente associato alla prima Repubblica, alla Democrazia cristiana di Andreotti, Moro, Fanfani, Colombo, Zaccagnini e tanti altri protagonisti di allora che almeno un merito l'avevano: spartirsi il potere facendo solo finta di litigare.
E infatti i loro governi avevano la durata media di 18 mesi, ma senza eccessivi traumi. Si trattava solo di salire e scendere su una giostra che non si fermava mai, invertendo le postazioni sulla ruota panoramica: una volta all'Interno e una agli Esteri, una a Palazzo Chigi e l'altra alla Giustizia. Altro giro altra corsa.
Si discuteva anche lì, certo, a volte animatamente, ma il vero gioco era la spartizione sistematica del potere attraverso il Cencelli delle tessere.
Nel Pd di oggi no. Si litiga davvero, e spesso furiosamente, senza nascondere i rancori personali. Infatti resta difficile capire gli attacchi “politici” a un segretario che prende il partito al 23% e lo porta al 41.
E resta ancora più difficile comprendere come si possa attaccare Matteo Renzi anche nel merito, quando si dice che avrebbe spostato troppo l'asse verso il centro, mentre chi lancia queste saette (Massimo D'Alema) è colui che per restare incollato alla poltrona di Palazzo Chigi, nel 2000, fece l'accordo con Cossiga e Mastella, che non venivano certo dalla scuola della Bolognina.
Dice: moriremo democristiani. E la risposta viene spontanea: sicuro che non sarebbe stato meglio?